didattica, outreach

Per un nuovo modo d’insegnare la meccanica quantistica

episodio 3: la natura dei fasci di elettroni

Probabilmente il concetto più difficile della meccanica quantistica è la dualità onda-particella. Secondo la maggior parte dei libri di testo, la luce ha una duplice natura: è (si comporta come) una particella in determinate circostanze e (come) un’onda in altre condizioni. Allo stesso modo, gli elettroni sono particelle e onde allo stesso tempo. A nostro parere questa interpretazione è sbagliata ed è solo una conseguenza del modo di pensare dei fisici del passato.

In questo post cerchiamo di fornire una risposta alla domanda: di cosa è fatto un fascio di elettroni?


La maggior parte dei libri di testo riporta che gli elettroni sono minuscole particelle che orbitano intorno a un nucleo a carica positiva, il cui movimento nei conduttori è responsabile della corrente elettrica. Questo quadro è abbastanza facile da accettare e la maggior parte dei lettori non si chiede come facciamo a saperlo. Qualche scienziato ha forse osservato minuscole palline che si muovono nei conduttori quando ai loro capi è applicata una tensione? La risposta è “NO”. Tale descrizione deriva dall’interpretazione di una serie di esperimenti durante i quali nessuno ha osservato un elettrone puntiforme, se non altro perché sarebbe stato impossibile osservarlo, essendo il suo raggio più piccolo della lunghezza d’onda della luce con cui avremmo dovuto illuminarlo per vederlo¹.

Per capire cos’è un elettrone, facciamo un esperimento: puntiamo un puntatore laser su un muro e premiamo il pulsante. Quello che vedrete è solo un punto luminoso sulla parete. Se volete vedere il raggio di luce dovete soffiare un po’ di fumo lungo il suo percorso. In questo caso si può vedere chiaramente un raggio luminoso rettilineo che lascia il puntatore laser e colpisce la parete.

La luce del fascio si vede solo con il fumo, perché la luce laser va dritta verso il muro e non può raggiungere l’occhio: per questo non si vede. Quando si soffia il fumo nella regione attraversata dalla luce, una parte di essa interagisce con le particelle di fumo e ne è deviata, in parte, verso gli occhi. La luce che vedete non è quella rivolta verso il muro: è la luce che è stata deviata dalla sua traiettoria interagendo con il fumo.

Se ci pensate un attimo, anche quando si guardano studenti e studentesse in una classe, non li si vede: si vede la luce dell’ambiente diffusa dalla loro superficie che raggiunge i nostri occhi. Se non ne siete convinti, basta spegnere la luce e chiudere le tapparelle, in modo che l’aula sia al buio. Riuscite ancora a vedere qualcuno? No, credo di no. Tuttavia, direste che gli studenti non sono lì solo perché non li vedete?

Lezione n. 1: quando vediamo qualcosa, non facciamo altro che un esperimento di diffusione usando la luce come proiettile; la luce è deviata dagli oggetti verso i nostri occhi e il nostro cervello costruisce un’immagine a partire dalla distribuzione della luce che colpisce la rètina. L’immagine, in fondo, non è che una mappa della posizione degli ostacoli.

Ripetendo l’esperimento mettendo un reticolo di diffrazione lungo il fascio di luce mostra la natura ondulatoria della luce: a valle del reticolo appare una figura d’interferenza. L’esperimento della doppia fenditura di Young è di solito considerato la dimostrazione della natura ondulatoria della luce.

Ripetiamo ora l’esperimento usando un fascio di elettroni invece di un fascio di luce. Un fascio di elettroni si ottiene riscaldando un filo all’interno di un condensatore ad alta tensione. L’alta tensione accelera le particelle elettricamente cariche, come nei tubi a raggi catodici, il cui schema è rappresentato qui di seguito.

Guardando all’interno del tubo non si vede nulla, come nel caso del raggio laser puntato sulla parete. Tuttavia, quando il raggio colpisce lo schermo fluorescente, la sua interazione con esso produce uno spot luminoso verde chiaramente visibile. Stiamo vedendo gli elettroni? Sì! Se vediamo gli studenti in un’aula osservando la luce proveniente da loro, allora vediamo gli elettroni osservando la luce proveniente dal punto in cui si trovano. Come possiamo dire che quello che stiamo guardando sono elettroni e non luce? La risposta è semplice: il raggio si può deviare con un campo magnetico. Variando l’intensità e la direzione del campo, il punto luminoso sullo schermo fluorescente si muove per effetto della forza di Lorentz. Quindi, il fascio dev’essere elettricamente carico. Questo esperimento ci dice che il fascio è fatto di particelle? Niente affatto!

Lezione n. 2: un fascio di elettroni assomiglia in tutto e per tutto a un fascio di luce. L’unica differenza è che il fascio di elettroni è elettricamente carico, perché è deviato da un campo magnetico.

Possiamo quindi eseguire un esperimento simile a quello fatto con la luce e il fumo. Riempiendo il tubo con un po’ di gas possiamo infatti vedere il fascio. Ciò che possiamo vedere, in effetti, è la luce diffusa dagli atomi del gas colpiti dal fascio di elettroni. Qui di seguito mostriamo l’immagine di un tubo catodico riempito di azoto posto in un campo magnetico uniforme.

Infine, possiamo mettere un reticolo di diffrazione lungo il percorso del fascio. In questo caso dobbiamo utilizzare un reticolo con una spaziatura tra le fenditure estremamente bassa ottenibile utilizzando, ad esempio, un cristallo di grafite. Il punto luminoso al centro dello schermo fluorescente diventa una figura di diffrazione come la seguente:

La distanza tra le frange cambia con l’energia del fascio. Dobbiamo quindi concludere che il fascio di elettroni è costituito di onde emesse dal catodo, che viaggiano all’interno del tubo. Se lo facciamo con la luce perché non con un fascio di elettroni? Le onde, in questo caso, sono elettricamente cariche (il che significa che le onde non viaggiano necessariamente lungo linee rette) e interagiscono con alcuni materiali causando l’emissione di luce.

Lezione n. 3: un fascio di elettroni si propaga come un’onda, dando origine a fenomeni di diffrazione.

D’altra parte, i microscopi elettronici utilizzano fasci di elettroni così come i microscopi ottici utilizzano la luce, e possiamo focalizzare un fascio di elettroni utilizzando le cosiddette lenti elettrostatiche, così come possiamo focalizzare un fascio di luce utilizzando una lente convergente.

L’elettromagnetismo c’insegna che la luce è fatta di campi elettromagnetici che si propagano come un’onda. Quindi, la conclusione più naturale degli esperimenti sopra citati è che un fascio di elettroni è costituito di un campo carico che si propaga come un’onda.


Questo post serve per convincervi che gli elettroni si possono considerare naturalmente come onde, senza scomodare la meccanica quantistica. Il prossimo post sarà dedicato a chiarire cosa s’intende per “campo carico” e a discuterne la natura particellare. L’articolo precedente è qui.


1J. Perrin avrebbe detto: “gli elettroni non si possono vedere, ma si possono contare: perciò esistono”. Al fine di superare la diffidenza nei confronti della meccanica quantistica, suggerisco anche la lettura della sua Nobel Lecture, per capire come pensavano i fisici all’inizio del 1900.

9 pensieri su “Per un nuovo modo d’insegnare la meccanica quantistica”

  1. Se ho dunque capito bene tutti gli esperimenti che sono stati descritti non inducono a pensare che gli elettroni siano “pallini” ma piuttosto onde cariche, o meglio ancora “campi carichi che si propagano come un’onda”. Inoltre nessuno degli esperimenti ci fa capire qualche cosa di più sul fatto che gli elettroni siano anche “pallini”: semplicemente ci dicono che descriverli come “onde cariche” è sufficiente per spiegare i fenomeni e non serve tirare in ballo particelle di alcun tipo. Giusto?

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    1. Corretto. Naturalmente ci sono anche esperimenti che inducono a pensare agli elettroni come a “pallini”. Tuttavia, una volta accettato che un campo può produrre effetti simili a quelli dei “pallini”, quegli esperimenti si possono reinterpretare così come si è fatto con la luce: Newton credeva fosse fatta di “pallini”, Fresnel di onde. Young dimostrò che Newton aveva torto, ma solo finché non si sono scoperti fenomeni nuovi come l’effetto fotoelettrico.

      Se non ci pare strano che un laser sia descrivibile in termini di campi e.m. che si propagano producendo effetti del tutto simili a quelli di un proiettile (pensate ai laser chirurgici che tagliano letteralmente i tessuti come farebbe un bisturi), non si vede perché dovrebbe sembrarci addirittura assurdo che un elettrone abbai la stessa natura.

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      1. Guardando le immagini a questa pagina:

        https://it.wikipedia.org/wiki/Esperimento_della_doppia_fenditura

        gli elettroni “appaiono” come pallini sullo schermo e la figura di interferenza si genera nel lungo periodo e non per ogni singolo elettrone (forse, ipotizzando che l’elettrone sia davvero un’onda, ci aspetteremmo invece che la figura di interferenza fosse osservabile anche con un solo elettrone). L’immagine è corretta oppure mi sfugge qualche cosa? Dal punto di vista di Schroedinger il puntino è legato al collasso della funzione d’onda; d’altra parte la funzione d’onda di Schroedinger descrive l’ampiezza di probabilità associata alla particella in relazione alla sua posizione nello spazio e nel tempo e ciò, ai miei occhi, non è poi così simile ad un’onda che si propaga in un mezzo.
        Ho poi delle domande: cosa succede al variare della distanza delle due fenditure? Se si aumenta molto la distanza è possibile cancellare la figura di interferenza? Qual è la relazione tra i puntini presenti sullo schermo e la teoria di campo che descrive gli elettroni?
        Grazie!

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  2. La figura è corretta. Nell’interpretazione di Copenhagen, come giustamente osservato, la funzione d’onda descrive l’ampiezza di probabilità di osservare una particella in una determinata posizione e l’apparire del “puntino” equivale al verificarsi della funzione d’onda. Nell’interpretazione della teoria quantistica dei campi, invece, il campo si propaga come un’onda, ma interagisce come una particella: in altre parole l’interazione di un campo con un altro campo è sempre “locale”. Il collasso della funzione d’onda perde di senso poiché il campo non è l’onda. L’onda rappresenta solo la sua propagazione: il campo è sì distribuito su un volume, ma non nel senso che una parte di esso si trova in un punto A e una parte in un altro punto B, per cui quando avviene l’interazione in A, la parte in B, per così dire “raggiunge” A. Il campo è presente in egual modo in A e in B e si manifesta attraverso il suo interagire in uno solo dei due punti.

    L’onda che si propaga in un mezzo è la perturbazione che si trasmette da un punto all’altro del mezzo: lungo una molla le compressioni e le rarefazioni longitudinali si propagano, ma non si propaga la materia della molla, che si limita a oscillare attorno alla posizione di equilibrio.

    La differenza che si percepisce è dovuta al fatto che non siamo abituati a vedere l’onda come perturbazione, ma come l’effetto che essa provoca sulla materia, che per molti versi è un’altra cosa.

    Cambiando la distanza tra le fenditure la figura di diffrazione si comporta esattamente come con le onde ordinarie: quando la distanza diventa sufficientemente ampia non si osserva più la figura, così come quando le fenditure diventano abbastanza grandi.

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    1. Grazie della bella risposta! Ancora un domanda: alla fine del testo lei scrive:

      “Cambiando la distanza tra le fenditure la figura di diffrazione si comporta esattamente come con le onde ordinarie: quando la distanza diventa sufficientemente ampia non si osserva più la figura, così come quando le fenditure diventano abbastanza grandi.”

      Ciò è dovuto al fatto che la distanza maggiore tra le fenditure e la maggior dimensione “compensano” l’indeterminazione sulla posizione associata alla particella? La figura di diffrazione è sostanzialmente legata all’indeterminazione oppure c’è di mezzo altro?

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      1. È un fenomeno tipico delle onde, che si verifica anche con le onde “classiche”. Dipende dal fatto che ciò che si propaga è la perturbazione e che il mezzo attraverso cui la perturbazione si propaga si comporta come una serie di sorgenti puntiformi di onde. In fisica questo fenomeno è noto come “Principio di Huygens”. In sostanza, se su uno schermo ci fosse un foro puntiforme (che indichiamo con A), questo si comporterebbe come una sorgente di onde sferiche. Se se ne pratica uno vicino (B), anche questo secondo si comporta come tale e le due onde, provenienti da due sorgenti distanti, possono interferire. Se le sorgenti sono molto distanti l’interferenza si verifica tra onde di ampiezza diversa (l’ampiezza si riduce con la distanza). Vicino ad A l’onda da esso prodotta interferisce con l’onda prodotta da B che però è debole e il risultato è un’onda molto simile a quella prodotta solo da A.

        Se, viceversa, A e B sono molti vicini, più vicini della lunghezza d’onda, si avrà sempre interferenza costruttiva e il risultato sarà sempre un’onda che è la somma delle due.

        La figura d’interferenza, dunque, si apprezza solo se la distanza tra le fenditure è comparabile con la lunghezza dell’onda incidente.

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